LA CENSURA

Con la censura un organo pubblico esercita un controllo sul contenuto di una manifestazione di pensiero, impedendone la diffusione quando è ritenuta contraria agli interessi dell’ordinamento. Sistematica nei regimi dittatoriali, la censura è un istituto eccezionale in uno Stato democratico.

Infatti, l’unica forma di censura ammessa nel nostro ordinamento è quella sulle opere cinematografiche, disciplinata dalla L. 21 aprile 1962 n. 161. Una apposita Commissione, i cui membri sono nominati dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali, concede il “nulla osta” alla diffusione di quelle opere non contrarie al buon costume, stabilendo eventuali limiti alla visione dei minori. Analoghe cautele sono previste, sempre a tutela dei minori, per le produzioni Tv.

Questa forma di censura trova piena legittimità nell’art. 21 Cost., il cui ultimo comma vieta “le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”. Per il resto, l’art. 21 Cost. garantisce a tutti il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.

Ciò non significa che il pensiero possa manifestarsi in spregio agli altrui diritti. Ad impedirlo sono quelle norme che puniscono, ad esempio, l’ingiuria e la diffamazione. Significa che nel nostro ordinamento non può esistere un controllo preventivo sul contenuto di una manifestazione di pensiero, che possa impedirne o solo condizionarne la diffusione. Fatta eccezione per il menzionato potere di censura in ambito cinematografico, l’intervento dello Stato può essere sanzionatorio, quindi successivo, ma mai preventivo. In un sistema democratico la diffusione del pensiero non può essere mediata da alcun organo di controllo.

A maggior ragione per la stampa, data la sua insostituibile funzione di collegamento tra i fatti e la collettività, in piena sintonia con l’art. 1, comma 2°, Cost. secondo cui “La sovranità appartiene al popolo”. Per questo l’art. 21, comma 2°, Cost. stabilisce che “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”. La norma vuole instaurare un rapporto diretto tra gli organi di informazione e la collettività. Un rapporto arricchito dal dovere di verità del giornalista, che contraddistingue un sistema democratico, ma che non avrebbe alcun senso in un regime dittatoriale, dove il flusso informativo è interamente mediato dai pubblici poteri.

La censura è l’atto di un potere pubblico. Non è quindi censura il controllo del direttore responsabile di un periodico, imposto dall’art. 57 del codice penale per “impedire che col mezzo di comunicazione siano commessi reati”. Tant’è che in mancanza di controllo, il direttore è punito a titolo di colpa nell’eventualità in cui il reato venga commesso. Non è riconducibile alla censura nemmeno il potere esercitato dal direttore responsabile per raccordare l’operato dei propri collaboratori alle caratteristiche editoriali della testata. Qui il controllo avviene in esecuzione del contratto con l’editore, e può sostanziarsi in un sindacato sul contenuto della pubblicazione. Del resto, è la previsione della clausola di coscienza (art. 32 CNLG, che dà al giornalista la facoltà di “chiedere la risoluzione del rapporto con diritto alle indennità di licenziamento” in caso di “sostanziale cambiamento dell’indirizzo politico del giornale”) a legittimare l’esistenza di un siffatto potere di controllo: la clausola presuppone che il direttore responsabile possa pretendere di conformare l’operato dei propri collaboratori all’indirizzo politico della testata.

Nel sistema radiotelevisivo il rischio di censura è normativamente prossimo allo zero. Ciò si desume da alcune disposizioni contenute nella L. 6 agosto 1990 n. 223 (“Legge Mammì”). L’art. 30, comma 3°, impone espressamente alla concessionaria, sia pubblica che privata, un controllo sul contenuto dei programmi, ma al solo scopo di impedire la commissione dei reati di pubblicazione e spettacoli osceni (art. 528 c.p.), di pubblicazione lesiva del sentimento di fanciulli e adolescenti (art. 14 L. n. 47/1948), di pubblicazione impressionante o raccapricciante (art. 15 L. n. 47/1948): ciò in sostanziale armonia con quanto prescrive l’art. 21, comma 4°, Cost. laddove vieta le manifestazioni contrarie al “buon costume”. Nessun controllo é previsto, invece, per prevenire il reato di diffamazione, contrariamente a quanto impone per la carta stampata al direttore responsabile l’art. 57 c.p., norma inapplicabile al sistema radiotelevisivo per il divieto costituzionale di analogia in materia penale (art. 25, comma 2°, Cost.).

Non è una differenza da poco. Un conto è limitarsi a verificare che un programma non contenga riferimenti scabrosi o impressionanti. Ben diverso è controllare se una trasmissione possa rivelarsi lesiva della altrui reputazione. E’ facile immaginare come quest’ultimo tipo di controllo, sostanziandosi in un giudizio discrezionale sul contenuto del programma, possa di fatto tradursi in una censura. Ed è proprio per la mancanza di un siffatto potere di controllo che poc’anzi si è detto che nel sistema radiotelevisivo il rischio di censura è “normativamente prossimo allo zero”.

Normativamente, però. Di fatto, in passato si sono registrati all’interno della concessionaria pubblica Rai casi clamorosi, che hanno visto coinvolti famosi giornalisti, oltre ad artisti di indiscutibile valore (andando indietro nel tempo, si pensi a Beppe Grillo). Dopo aspre polemiche, sono stati soppressi importanti programmi di approfondimento informativo e addirittura allontanati i loro conduttori, che per anni non hanno potuto lavorare in Rai. Stessa cosa per alcuni programmi di satira.

Non essendo concepibile in un sistema democratico, né esistendo un organo deputato ad esercitarla, la censura non è mai dichiaratamente tale. Qualcuno si improvvisa censore bloccando un programma; spesso allontanandone l’autore, giornalista o artista che sia. Ma nel fare ciò l’improvvisato censore è costretto a nascondere due aspetti. Innanzitutto, deve nascondere che agisce su direttiva, o comunque nell’interesse, di chi detiene il potere politico e, come tale, non ha alcun potere giuridico di intervento, tanto da essere costretto ad utilizzare “mandatari” posti ai vertici della concessionaria Rai. In secondo luogo, l’improvvisato censore deve nascondere i veri motivi che lo hanno spinto a bloccare il programma, che sono poi i motivi che hanno indotto chi detiene il potere politico a servirsi del censore; e rimpiazzarli con motivi che possano giustificare l’atto. Insomma, l’improvvisato censore deve ricondurre la soppressione della manifestazione di pensiero ad un comportamento ammesso dall’ordinamento.

Per quanto riguarda il primo aspetto (la natura politica dell’atto censorio), essendo difficile ottenere una prova certa, sono sufficienti “elementi presuntivi” che insieme fanno ritenere verosimile che l’improvvisato censore abbia agito per conto di chi detiene il potere politico e si sente leso nei suoi interessi dai contenuti della trasmissione. Generalmente l’atto censorio è preceduto da autorevoli dichiarazioni di politici il cui tenore fa pensare ad una loro interferenza nei palinsesti Tv, ufficialmente impermeabili alle scelte politiche. Qui vanno tenute presenti non solo le dichiarazioni dei politici contro i programmi che poi verranno soppressi, ma anche i comportamenti dei soggetti preposti ai vertici Rai, da cui si possa ricavare quantomeno una loro assonanza con chi detiene il potere politico, se non un asservimento.

Per i gravi casi verificatisi in Rai durante il secondo governo Berlusconi (2001 2006), alcune dichiarazioni assumono certamente un’importanza fondamentale. Basti pensare a quella del leader di An Gianfranco Fini poco prima delle elezioni politiche del 2001, quando, criticando la conduzione della trasmissione “Il raggio verde” di Michele Santoro, affermò che in caso di vittoria della Cdl “faremo piazza pulita alla Rai”. O alla dichiarazione di Agostino Saccà che, poco prima di essere nominato direttore generale della Rai (agosto 2002), affermò in un’intervista al “Corriere della Sera” di votare Forza Italia con tutta la famiglia. O a quella, ingenua ma spontanea, di Alfredo Meocci all’indomani della sua nomina a direttore generale della Rai (agosto 2005): “Ringrazio il presidente del Consiglio per la fiducia”, ossia Silvio Berlusconi, quando la sua nomina avrebbe dovuto essere di esclusiva competenza del consiglio di amministrazione Rai.

Sono dichiarazioni che fanno chiaramente pensare ad una interferenza del potere politico nelle decisioni prese dai vertici Rai. Ma la dichiarazione più eclatante rimane quella resa da Silvio Berlusconi, allora capo del Governo, durante una conferenza stampa tenuta a Sofia il 18 aprile 2002, quando parlò di “uso criminoso della televisione pubblica” da parte di Enzo Biagi, Michele Santoro e Daniele Luttazzi, nonché di “preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga”. La dichiarazione di Berlusconi è passata alla storia con il termine di “editto bulgaro”, soprattutto per la solerzia con cui sarà eseguito dai nuovi vertici Rai a danno dei menzionati soggetti.

Ma l’elemento presuntivo di maggior importanza è dato dalla circostanza che il programma viene soppresso nonostante il successo di pubblico. Qui vi sono due interessi contrapposti. Da una parte l’interesse di chi gestisce il potere politico, che si ritiene minacciato dalla messa in onda del programma; dall’altra, l’interesse della concessionaria Rai a trasmettere programmi ad alto share, non solo per soddisfare il maggior numero di utenti (si ricordi che la Rai è “servizio pubblico”), ma anche per aumentare la raccolta pubblicitaria. E’ chiaro, quindi, che la soppressione, da parte dei vertici Rai, di un programma che registra alti ascolti è la classica zappa sui piedi, che tuttavia nell’ottica dell’improvvisato censore, che agisce per conto del potere politico, appare l’unico modo per tutelare quest’ultimo. Qui è la stessa natura masochistica dell’atto a far pensare ad una imposizione del potere politico sulla concessionaria pubblica. Imposizione che durante il secondo governo Berlusconi (2001 2006) era certamente stimolata dall’essere il capo del Governo addirittura proprietario delle tre reti Mediaset, principale concorrente della Rai, come tale fortemente interessato a che la stessa perdesse ascolti, quindi raccolta pubblicitaria.

Un altro elemento presuntivo di grande importanza è dato dagli sforzi organizzativi ed economici spesso profusi dalla Rai per assicurarsi un programma che poi viene soppresso. Per ovvi motivi, entrambe le decisioni vengono prese dagli stessi soggetti, o comunque con il loro avallo. E’ chiaro, quindi, che la soppressione di un programma, in considerazione delle risorse spese per garantirselo, dà luogo ad una evidente contraddizione, che fa presumere che la decisione finale sia stata adottata in una posizione tutt’altro che immune da interferenze esterne.

Il secondo aspetto da valutare riguarda le motivazioni con cui l’improvvisato censore giustifica l’intervento sulla trasmissione. Per non violare dichiaratamente la Costituzione, chi censura deve mentire. Dovendo nascondere i veri motivi che hanno occasionato la censura, è costretto ad enunciarne altri che formalmente riconducono l’atto nei binari della legalità, o quantomeno lo fanno ritenere opportuno, ma che quasi sempre si rivelano pretestuosi: o perché sottolineano l’esigenza del raggiungimento di obiettivi poi clamorosamente mancati, o perché contraddittori o basati su fatti falsi. I singoli casi approfonditi danno un chiaro quadro del problema in cui si imbatte l’improvvisato censore. Ma vale la pena richiamare subito un esempio.

Nel gennaio 2004 uno sketch dell’attrice comica napoletana Rosalia Porcaro (che conteneva alcune pungenti battute su Berlusconi, sul suo conflitto di interessi e sulle sue leggi ad personam) viene soppresso dal direttore di Rai1 Fabrizio Del Noce a poche ore dalla messa in onda, ufficialmente perché il dialetto napoletano non si addice ad un programma di prima serata di Rai1 ed è difficilmente comprensibile. Ebbene, basti pensare alle intere generazioni cresciute con i film di Totò, Peppino De Filippo, Massimo Troisi ed altri brillanti partenopei per capire quanto la giustificazione fosse pretestuosa, perché diretta unicamente a censurare il contenuto dello sketch.

Un cenno va fatto sul concetto di linea editoriale. Spesso un programma non viene preso in considerazione o soppresso perché ritenuto non conforme alla “linea editoriale” della rete. Ciò accade soprattutto per i programmi di satira. La giustificazione, più che fumosa, è basata sul nulla. La Rai fa servizio pubblico e il suo editore è idealmente la collettività che ne usufruisce. Di conseguenza, un programma già collocato nel palinsesto Tv e mandato in onda può essere considerato non conforme alla “linea editoriale” di una rete quando gli ascolti si rivelano bassi, ossia quando risulta non gradito al grande pubblico. Invece, prima della messa in onda ma dopo la sua realizzazione secondo gli accordi tra autore e concessionaria, un programma deve solo rispettare i limiti imposti dalle leggi vigenti, emanate dal Parlamento in rappresentanza della collettività. L’affermazione secondo cui un programma non rispetta la “linea editoriale” di una rete ben può essere la spia di un comportamento censorio.

Verificare se in un caso concreto vi è stata censura ha un’utilità giuridica. Infatti, un conto è ricondurre la soppressione del programma ad un inadempimento del contratto che lega la Rai alla prestazione del conduttore; un altro conto è ricondurla (anche) alla precisa volontà di impedire una libera manifestazione del pensiero. Qui vi sono due ulteriori conseguenze: una riguarda la vittima della censura, l’altra la collettività.

Per il conduttore, al complesso di danni subìti dall’inadempimento contrattuale si dovrebbe aggiungere quello che deriva dalla lesione di una libertà costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.), che la giurisprudenza prevalente riconduce alla categoria del danno esistenziale. Per la collettività, la censura di un programma interrompe il flusso di informazioni garantito dal conduttore: in questo caso l’ente portatore di un interesse collettivo (ad esempio il Codacons) potrebbe citare in giudizio la Rai chiedendo il risarcimento dei danni subìti dalla collettività per effetto del comportamento censorio. Ma va precisato che la richiesta danni potrebbe essere rivolta anche (o solo) all’improvvisato censore. E anche al “mandante” politico, qualora si allegassero prove sufficienti della sua interferenza.

Naturalmente, quanto detto vale anche per la censura che colpisce una manifestazione artistica, che è tutelata dall’art. 33 Cost. (norma che sancisce la libertà dell’arte). Non va dimenticato, infatti, che tutte le leggi che finora si sono succedute considerano quali principi fondamentali in materia radiotelevisiva la tutela e lo sviluppo del patrimonio artistico e culturale, nonché la valorizzazione delle relative opere.

Tra i casi di censura affrontati non compare quello che riguarda Massimo Fini, scritturato dalla Rai per Cyrano, un programma di 15 puntate di cui lo stesso Fini è autore ed interprete, che sarebbe dovuto andare in onda su Rai2 in tarda serata a partire dal settembre 2003. Il caso non è affrontato non perché sia meno grave o importante, ma perché sul caso non vi sono “elementi presuntivi” da ricercare e analizzare. La censura, infatti, fu clamorosamente ammessa dagli stessi vertici Rai, come risulta da una conversazione registrata da Fini nello studio di Antonio Marano, allora direttore di Rai2, che solo pochi giorni prima della messa in onda del programma parlò candidamente di “veto politico aziendale” sullo stesso Fini. Cyrano sarebbe potuto andare in onda, ma i telespettatori non avrebbero dovuto vedere la faccia di Fini, che sarebbe stato comunque indicato come autore del programma. Fini e il regista rifiutarono la proposta e Cyrano non fu mai trasmesso (la registrazione del colloquio tra Fini e Marano è riportata nel libro GOMEZ TRAVAGLIO, Regime, BUR, Milano 2005, pag. 4 ss.).

La censura a Enzo Biagi

La censura a Michele Santoro

La censura a Sabina Guzzanti

La censura a Paolo Rossi

La censura a Daniele Luttazzi